La prima volta che ho scritto questo post ogni virgola assomigliava a un sorriso: pensavo al Natale dei miei bimbi. A quello di Puki, ancora assolutamente ricco di magia, anche se la scorsa settimana ha confessato di sospettare che ci sia lo zio Francesco sotto alla barba di Babbo Natale, e a quello della piccola FranceKKina Sorellina, che per la prima volta in assoluto vedrà un albero di Natale e, al solito, distribuirà bava e gran sorrisoni sdentati al posto dei regali.
La seconda volta che ho scritto questo post, per quanto mi impegnassi, la pagina restava ostinatamente bianca. Avevo appena saputo di Parigi e ora le mie virgole tremavano, pensando ai miei bimbi. Mi chiedevo dove troverò il coraggio di incitarli a uscire di casa e viaggiare per il mondo, insomma pensavo a tutto tranne che a Calendari dell'Avvento e feste in arrivo.
Confusa, mi sono arresa e sono andata a controllare i piccoli prima di andare a letto: Puki come al solito aveva scacciato le coperte, Franci dormiva coi pugnetti in alto, arresa ai sogni.
È il mio momento preferito della giornata, quello in cui me li posso annusare in pace senza sembrare pazza.
Questa volta è stato il momento in cui ho sentito come non mai il desiderio di creare in questa casa un Natale perfetto, elevato all'ennesima potenza, sotto steroidi, privo di ritegno, scandalosamente kitsch. Per loro?
No, per me.
Per vedere ancora una volta le cose coi loro occhi di bimbo, per sgranarli davanti alle lucine che illuminano il centro storico, all'albero decorato con ornamenti fatti di pasta e tappi, alla tazza colma di cioccolata calda alla cannella.
Ed è così che, in punta di piedi, ha fatto il suo ritorno nei miei pensieri il Calendario dell'Avvento, pronto a rispondere a tutti i miei "quanto manca??"